La copertina, che vi stiamo proponendo, non sembra proprio tratta da un cantiere di maestri muratori bergamaschi nell’atto di dare corso alla loro riconosciuta e celebre arte edile.
Si tratta sempre e comunque di una ricostruzione, che in accordo con il significato del sostantivo espresso, prevede una demolizione preventiva per far posto a qualcosa di altro.
Sdegnarsi, scandalizzarsi, indignarsi è assolutamente lecito, così come provare terrore e smarrimento di fronte a queste scene, canone tipico del susseguirsi di guerre, dittature, riconquiste, penoso rosario, che la nostra umanità continua a recitare nell’attesa che qualcosa accada, che giunga una maturità, una coscienza più aperta, una più concreta consapevolezza del proprio ruolo.
Mi hanno sempre raccontato che da piccolo provavo più soddisfazione a smontare i giocattoli, piuttosto che ad utilizzarli, creando delle oscenità ingegneristico-architettonico (a tavola anche biochimiche), che infondevano nel mio animo tanta soddisfazione nel giocare a lungo con quanto avevo nuovamente assemblato, anche se agli occhi dei miei genitori apparivano come informi espressioni di una creatura inconsapevole.
Attenti! Vi sto già immaginando indignati nel puntarmi il vostro indice al grido di “Ma come, questo tanghero giustifica un simile scempio!!!”.
Calmi, non ho scritto ciò, desidero solo (assecondando la logica di questo sito e del mio mestiere) capire con voi il perché di certi comportamenti non così dissimili dai nostri quotidiani atteggiamenti, per esempio, verso i nostri monumenti: “Pompei docet!”.
Ma non diventi così paonazzo, caro il mio lettore, non ho proferito nessuna insulsaggine. La distruzione (aspetto ancor più vero per noi maschietti) è insita nel processo di creazione. La tela viene deflorata dall’artista e se ciò non accade la sofferenza del pittore permane sino a quando non può inciderla a sangue, perché la tela bianca non è più foriera di alcun significato per lui. Ogni nostro movimento, dal recarci al bagno o al ritiro del Nobel, è mosso da un’idea, istintiva o ponderata, consapevole o automatica: le cose stanno in questi termini. Si distrugge per creare anche solo per originare l’assenza di qualcosa o solo per affermare l’assenza di quella stessa cosa. È quel “qualcosa” su cui occorre indagare.
Caro lettore paonazzo (ma vista l’età si calmi, altrimenti potrebbe rischiare di non arrivare al termine di questo interessantissimo articolo) provi a spiegarsi che differenza intercorra tra i laboriosi distruttori ritratti dalla copertina e suo nipote che disegna il simbolo degli anarchici sulla facciata appena restaurata del duomo della sua città. Oppure quale sia la differenza tra l’uso dell’esplosivo per eliminare le statue del Budda o il lasciare che l’inerzia di un’opinione pubblica pusillanime consenta la gestione del patibolo dell’oblio a burocrati prezzolati, che hanno venduto territorio, persone e opere ai signori della speculazione edilizia. Certo, indossano la cravatta, operano nel formalismo della legalità, non rovinano tutto di botto, alzando tutta quella polvere: sono civili.
Lo so, rode anche a me doverlo ammettere: appartenere ad una nazione ad alto tasso di incompetenza truffaldina, ma è così. Abbiamo rovinato, distrutto e disperso molto più noi dell’Isis, per ora.
E allora? Allora torniamo a quel “qualcosa” che manca all’appello. A cosa serve il patrimonio culturale (notate bene: materiale ed immateriale)? Domanda sbagliata!!! La domanda corretta è: “A cosa serve tutelare il patrimonio culturale?”. Ora va meglio. Potrebbe servire, per esempio, a comprendere meglio la nostra identità, il nostro scopo su questo pianeta, errori e conquiste compiute o necessarie. Potrebbe, caro il mio lettore ora divorato da un’improvvisa acidità di stomaco (no, non dia la colpa al computer, ma a quell’imbecille di suo figlio, che con suo nipote non è riuscito mai a parlare di cose “serie”) arrivare a notte nel formulare gli aspetti benefici del porsi la citata domanda. Questo, che sta compiendo, è definito “processo intelligente”, il cui termine di origine latino suggerisce etimologicamente una azione atta a penetrare nell’intimo delle questioni e nel collegarle ad altre, per originare delle “letture” più nitide ed esaustive di ciò che ci circonda. Mi perdoni, caro seguace del Maalox, ritengo stupido prendere tutto per ciò che è, senza il beneficio di alcun dubbio.
Tutelare il patrimonio culturale è, innanzi tutto, dal punto di vista descritto, intelligente e propedeutico a molte delle altre scelte, che possiamo compiere nei confronti di quanto prodotto dalla nostra stessa specie o dalla natura (attenti che qui il gioco si fa molto, ma molto più pesante!).
I signori, o chi per loro, che nella copertina agitano vorticosamente mazze e cervelli, hanno compiuto una scelta: la nostra nazione decide, sovente, solo sulla carta, e su quella neppure in modo così efficace ed efficiente. Eppure quei soggetti ritratti stanno “costruendo” la propria coerenza esistenziale, così come i nazisti e tanti altri nella sanguinolenta storia dell’umanità. Hanno scelto e su questa scelta affermano la propria identità, che deve essere visibile, urlata, gettata in faccia al mondo. Non stanno distruggendo (mettetevi solo un attimo nei loro sudati panni), stanno costruendo, stanno sviluppando. Secondo noi stanno sbagliando strada, ma in questa sede non è in discussione la loro etica, lo è la nostra.
Da quanto non stiamo decidendo per il bene comune? Da quanto non decidiamo qualcosa che possa essere dissimile dal riempimento immediato del portafoglio? Siete sicuri che la natura, l’evoluzione premi i pusillanimi (della cui genìa in questi ultimi due mesi ho fatto una collezione straordinaria, soprattutto di quelli che si definiscono “cristiani”)? Quale è stato l’ultimo movimento culturale italiano che ricordate, malgrado le scelte sbagliate o non decise?
Come, mio caro lettore? Sto inneggiando alle dittature? Certo: inneggio per una volta alla dittatura dell’intelligenza, del senso reale e non politico della collettività, del senso storico di quel fiume di individui, che mi ha preceduto su questo pianeta. La mia dittatura non è quella della massa utile solo per il consenso ed il silenzio. La mia dittatura è quella del primato dell’intelligenza, della ricerca della verità, nella comprensione profonda di tutto e di tutti, perché solo così potrò percepire quel senso eroico dell’esistenza, che, a dispetto di tutto e di tutti, renderà questo mio spreco di fiato, se non onorabile, almeno meno idiota.
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Titolo:
“Tutela, identità culturale e sviluppo: perché è intelligente tutelare il patrimonio culturale”
Sezione: “La copertina”
Autore: Gian Stefano Mandrino
Codice: INET1509141500MANA6
Ultimo aggiornamento:15/09/2015
Pubblicazione in rete:
2° edizione, 15/09/2015
3° edizione, 28/11/2018
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