Rincorrere il profitto per il profitto ha provocato povertà di vario tipo, alle quali altre e peggiori si stanno aggiungendo.
Scrivo dopo il mio ultimo redazionale su intelligenza e musei.
Scrivo questo articolo di copertina qualche giorno dopo la notizia dell’assegnazione del Premio Nobel allo statunitense Hopfield (della Princeton University) ed al britannico Hinton (dell’University of Toronto)”Per le scoperte e invenzioni fondamentali che consentono l’apprendimento automatico con reti neurali artificiali”.
Scrivo dopo aver assistito ad un incontro sulla intelligenza artificiale.
Scrivo lasciando ai colleghi della redazione il compito di presentarvi le novità del sito, perché da oggi voglio sfruttare al massimo le opportunità di dialogare sui perché e non solo sui come.
Scrivo perché si sta avverando ciò che predissi tempo fa e che scrissi in un mio redazionale circa le nuove povertà.
Vorrei raccontarvi di due povertà in particolare, due macro insiemi che ne racchiudono, ciascuno, moltissime altre. Per la prima ricorrerò alle sensazioni provate durante il citato incontro sull’intelligenza artificiale. Mi sono trovato nel sottoscala di una altisonante fondazione italiana, dove era allestita una approssimata sala conferenze dalla capacità ridotte di una cinquantina di persone a sedere. Attorno a me e negli interventi, che si sono alternati, persone che parevano uscite da un film statunitense o dal video di una conferenza di qualche stella dell’industria informatica USA. Parlavano un “volgare” di inizio millennio caratterizzato da un italiano sempre più approssimato, inquinato da dei “non senso” di vaga espressione anglofona o smaccatamente di gergo professionale (aspetto alquanto illogico visto che l’obiettivo dell’incontro era “divulgare” lo stato dell’arte sull’applicazione dell’intelligenza artificiale, chiedendo agli astanti, peraltro, chi fosse a digiuno di detta tecnologia). I relatori dall’espressione compulsiva cercavano di trasmettere, tra uno scatto e l’altro, un sentimento di “utile” confidenza tendente alla amichevole informalità. Ti chiamano subito per nome, usando la seconda persona singolare come tra vecchi e consumati amici, raccontando, esaltati, di evoluzioni applicative di intelligenze artificiali a caccia di “come” da riprodurre e da far propri, senza alcun pensiero ai “perché”: il tutto in nome di un mai pronunciato profitto, che se proprio si deve evocare lo si fa col termine “business”. Mi sentivo kafkiano prigioniero del nulla in una collettività di uomini (solo due donne erano presenti, svanite poi nel nulla) tutti uguali, prevedibili, sostituibili, intercambiabili, entusiasti e spenti: inconsapevoli prigionieri di sistemi digitali in attesa di quel passaggio, di quella nuova “neomosaica” pasqua, in venerazione di quella tecnologia, che “potrebbe superare nel 2050 l’intelligenza umana”. Unico moto animale, più che umano, il rituale precipitarsi su di un paio di vassoi di cose da rinfresco e qualche birra sparsa su di un tavolo, orfano di qualsiasi garbo da pubbliche relazioni, quasi come avanzi gettati sull’aia. Chi è più povero e misero di colui che non cerca i motivi della propria esistenza, delegando alle macchine ciò che di umano gli rimaneva? Chi è più povero di colui che costruisce un sistema decisionale, sapendo benissimo che un giorno non così lontano lo stesso sistema detterà le modalità esistenziali al proprio fattore? Quante volte tutto ciò è già successo nella storia dell’umanità ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Reiterare modelli ad alto rischio, senza chiedersi nulla circa gli effetti nel futuro di ciò che si sta mettendo in atto non è povertà di lungimiranza? A cosa serve aumentare la capacità e la velocità di calcolo, la possibilità di gestire sempre più informazioni, questa abbuffata di dati, se non se ne vogliono comprendere i risultati o se si vuole ascoltare la sola ragione del profitto? È se tale sudditanza esistenziale fosse voluta, come sovente accade presso la nostra specie?
E poi ci sono gli altri, quelli di sempre e sempre esistiti, che non fanno più notizia. Scomodi, brutti, “no-smart”, certamente cenciosi e puzzolenti, quelli che, vi ricordate, da bambini ce li raccontavano con le pance deformi, gonfie di nulla. Ora stanno alimentando le loro viscere con l’impossibilità di reperire informazioni, comunicazioni, relazioni culturali, nozioni, finanche le più basilari. Anche quello gli stiamo portando via. È la nuova povertà, o forse solo l’evoluzione di quella vecchia. È omologabile a quella di prima nell’impossibilità di comprendere destini e ragioni esistenziali, perché è difficile fare della filosofia con la pancia vuota e le bombe che ti pettinano i capelli.
Entrambi le categorie sono costituite da prigionieri: chi più stupido, chi più disperato, ma accomunati dall’essere privi di speranza.
Ed i musei? Cosa c’entrano con questo requiem per umanità depressa? Nulla, se per cultura si intende quel bel mondo per pochi, patinato, limitato, ipocrita, autoreferenziale, lontano, sovente incapace ed inutile atto solo a creare benefici per pochi, assolutamente inadatto al ruolo di motore di intelligenza e di introspezione individuale e collettiva. Sono più di quarant’anni che mi interesso di musei e di cultura, che aspetto l’accensione di questo motore.
Tutto il resto, lo sapete, è noia!
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Titolo: “Quando povertà fa rima con libertà”
Sezione: “La copertina”
Autore: Gian Stefano Mandrino
Ospite: –
Codice: INMNET2410161515MAN/A1
Ultimo aggiornamento: 16/10/2024
Pubblicazione in rete: 16/10/2024
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Fonte contenuti: Network Museum
Fonte immagine: Copilot – Network Museum
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