Una riflessione sul ruolo della cultura e del suo rapporto con le nuove povertà.
Deculturazióne s. f. [tratto da acculturazione, con sostituzione del pref. de- a ad-]. – In antropologia culturale, perdita di elementi di una cultura, o appiattimento delle sue peculiarità, causata sia dalle trasformazioni interne alla cultura stessa, sia dall’adozione di modelli culturali derivati dall’incontro con culture diverse. (Vocabolario – Treccani).
Collegandomi alla scorsa copertina, dove avevo identificato due nuovi tipi di povertà, ritengo opportuno, in questo editoriale, mettere in evidenza una ulteriore minaccia, che si potrebbe considerare come convergenza delle due precedentemente descritte, sintetizzate di seguito per comodità dei lettori.
La prima è legata all’adozione di tecnologie, che potranno limitare ed indirizzare le nostre scelte, malgrado il nostro convincimento di essere “individualità” libere e non condizionate o condizionabili. È un po’ come chi, appassionato di cinema, si sentisse libero di scegliere lo spettacolo a lui più congeniale, non capendo che la sua scelta sarà comunque ristretta ad un tipo di produzione, proveniente rigorosamente da determinati paese, mentre dal sistema, a cui appartiene il cinefilo in questione, vengono sistematicamente ignorate produzioni originate in altre località del pianeta. Ciò succede da molto tempo, in Italia, ma ben pochi sollevano il problema. Ciò, ovvero l’adozione di comportamenti caratterizzati da una intensa promiscuità con la tecnologia, potrebbe limitare le scelte di comportamento a schemi definiti a priori dal sistema tecnologico stesso, una standardizzazione che, come per le specie di mele, potrebbe portarci ad una diminuzione di varietà comportamentali ed identitarie: in natura la diminuzione di varietà espone le specie ad un impoverimento di strategie e di scelte per la sopravvivenza, ciò che in Infogestione indichiamo come “cultura”.
La seconda è espressa dalla impossibilità per alcune fasce sociali o per coloro che abitano in alcune zone del pianeta di accedere ad informazioni e contenuti, difficoltà amplificate, inoltre, dalla impedita fruizione proprio di quelle stesse tecnologie, che stanno omologando a determinati standard i comportamenti di chi, invece, avrebbe o pensa di avere libertà di accesso alla conoscenza, nei suoi termini più ampi.
La nuova minaccia, di cui parlavo in apertura, risiede, anche, ma solo come concausa, nella diffusione dell’adozione tecnologica, che sta procurando una selezione del patrimonio di conoscenze trasmesso dai sistemi educativi, accademici, professionali, mercantili e sociali.
Sempre più raramente l’attività scolastica, ed in generale dell’apprendimento, favorisce l’aspetto introspettivo esistenziale, individuale e sociale, a beneficio di una ossessiva “conquista” di possibilità di accesso al sistema socioeconomico – produttivo (sovente intesa anche come “esposizione”, popolarità), il cui termine “produttivo” identifica una attività umana che da tempo non era stata interessata da limitazioni ed impoverimento, per soggetti coinvolti e risorse, come in questi ultimi decenni.
Sembra che al sistema educativo venga chiesto solo di traghettare un individuo alla autosufficienza economica, attraverso il suo inserimento nel sistema economico – produttivo, come se lo studio non avesse altre finalità. Eppure non mi risulta che si sia raggiunta la completa conoscenza delle ragioni per cui il tutto esista. Non mi risulta siano stati banditi la vecchiaia, il dolore, la paura e la morte dalle esistenze di tutti e di ciascuno. Non percepisco una armonia sociale e tra le collettività residenti su questo pianeta. Siamo certi che l’esistenza sia solo il soddisfacimento di istinti basilari e la conseguente enfatizzazione degli stessi, sino alle espressioni parossistiche di varie aspetti esistenziali come la sfera sessuale, nutritiva, relazionale? Stiamo massificando i nostri comportamenti, ritenendoci unici tra tutti, senza considerare il fatto che se ognuno si considera unico e tutti si omologano a tale comportamento, la necessità di divenire unici non risulta più soddisfacibile.
Tutto ciò, anche se non sono un antropologo e mi scuso con i colleghi se mi permetto una traslazione del significato per necessità e vuoto lessicale, lo definisco deculturazione. Ritornando all’aspetto istintivo, poco sopra citato, siamo certi che l’incremento di violenza e di intolleranza tra i componenti della nostra collettività non sia da ricondurre proprio alla degenerazione di modelli culturali complessi, che ci hanno accompagnato per secoli. Certo che non è solo colpa della tecnologia, che rimane, tuttavia, un grande catalizzatore e acceleratore di tale aspetto, se la collettività sta indirizzandosi verso comportamenti livellanti al minimo le potenzialità umane. Nelle dittature del novecento tale caratteristica era già presente: la dittatura sostituisce con un pensiero unico la varietà culturale e comportamentale presente in una collettività.
La nostra specie, come tutte le altre del regno vegetale ed animale, necessita di varietà comportamentale per intraprendere la migliore strategia di sopravvivenza. Nella nostra specie è la cultura, in ogni aspetto, a permettere che tale patrimonio di differenziazione possa emergere dai singoli componenti della specie stessa e dalle loro interazioni. L’attività educativo-culturale, non quella produttiva finalizzata al vantaggio di pochi malgrado molti ne siano coinvolti, è l’unica in grado di suscitare la vera ricchezza sia per gli individui, in termini di sostentamento e di consapevolezza introspettiva, che per le collettività, che, parafrasando una frase del Presidente Pertini, potranno realmente porsi al servizio “dell’esaltazione della libertà del singolo”.
In questo scenario anche il sistema museale è chiamato a fare la propria parte. Innanzi tutto, a proposito del tema del nuovo anno, chiedendosi cosa sia l’intelligenza per un museo, prima di adottare intelligenze sintetiche altrui. Anche i musei, infatti, si stanno indirizzando verso forme didattiche e comunicative estremamente autoreferenziali ed edonistiche. Si stanno orientando maggiormente verso la percezione sensoriale ed emotiva più che a beneficio della comprensione. Sbandierano “successi” decretati dal numero di visitatori, per esempio, senza porsi il problema di quanto la loro proposta abbia potuto incidere, realmente, sulle esistenze dei loro fruitori. È questo che differenzia un elegante e costoso deposito, da un luogo di conoscenza, ispirazione e crescita. Da tempo continuo a visitare mostre temporanee, presso vari musei, o assisto ad attività più o meno poetico-filologiche, in cui gli ospiti si sentono addirittura più artisti dei maestri ospitati o il contenitore si atteggia come più importante di quanto esposto. Le informazioni relative ai contenuti non vengono così trasmesse in modo “accessibile”, condivisibile, fruibile ed il museo aumenta la distanza con i propri destinatari, che non sono coloro che lavorano presso tali istituzioni o i reperti che le stesse ospitano, ma l’intero consorzio umano. Diamoci pace: se la nostra specie soccombesse a se stessa, nessun museo avrebbe più senso, se non quello di costituire un imbarazzante monumento alla vanità ed alla stupidità di una forma animale, che forse non si merita neppure di esistere.
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Titolo: “Deculturazione”
Sezione: “La copertina”
Autore: Gian Stefano Mandrino
Ospite: –
Codice: INMNET2411111700MAN/A1
Ultimo aggiornamento: 11/11/2024
Pubblicazione in rete: 11/11/2024
Proprietà intellettuale: INFOGESTIONE s.a.s
Fonte contenuti:
– Network Museum
– https://www.treccani.it/vocabolario/deculturazione/
Fonte immagine: Copilot – Network Museum
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Collegamenti per approfondimenti inerenti al tema: –
Mi permetto di considerarmi totalmente d’accordo ed in sintonia con il contenuto della “copertina”.
La cultura é ormai minacciata dai fatturati e dai miti delle proposte “esperienziali” ad ogni livello di offerta.
I musei non sembrano sfuggire a questo percorso in stile gastronomia-ristorazione-soddisfazione-scatto fotografico.
Complimenti vivissimi
Cordialmente
Fabio Lauri